02.12.2014 Progetti

L’automazione industriale ed il Quinto Elemento: un colloquio con Daniele Vacchi, Corporate Communications IMA

D: L’automazione industriale, il mondo delle macchine automatiche e l’uomo: come si compongono in modo armonico questi due elementi apparentemente così contrastanti?

R: Nella realtà industriale contemporanea, dove ormai le tecnologie sono diventate complesse e sempre più integrate, anche l’industria della automazione meccanica ha necessariamente dovuto rivedere i termini della propria definizione e trovare un nuovo paradigma di riferimento.

L’ingegneria meccanica, intesa storicamente e tradizionalmente come fondamento primario a cui attingere le conoscenze nell’ambito della industria della automazione, è un concetto che non riesce più, da solo, a descrivere le realtà multiforme della meccanica tradizionale. Da tempo, infatti, è stato necessario acquisire ed integrare nella ingegneria meccanica anche il dato “elettronico”, generando una nuova disciplina, la Meccatronica: parola non facilmente accettata dagli stessi ingegneri meccanici, ritenendola una definizione artificiosa in cui l’elettronica resta sempre e soltanto una integrazione in aggiunta ad una disciplina di per se autonoma e fondante.

Di fatto, è innegabile che in un ambiente industriale complesso debbano confluire competenze diverse, quattro elementi derivanti da discipline differenti ma inevitabilmente complementari: la Chimica, la Fisica, l’Ingegneria, l’Informatica.

Recentemente, sono stato quasi costretto a dover rielaborare questo quadro multidisciplinare alla luce di una visione olistica e più vicina alla realtà del mondo di oggi. I quattro elementi basilari della cultura ingegneristica nella meccanica devono saper tenere conto anche di quello che possiamo chiamare il “Quinto Elemento”, cioè l’elemento “Uomo”, la componente umana ed individuale che porta all’interno dell’impresa un contributo intangibile ma concreto e che va ad influenzare l’intera filiera produttiva, dall’impresa all’utente finale.

Sono giunto a questa riflessione in occasione di una visita recente di una delegazione internazionale composta da designer provenienti da diversi paesi del mondo, organizzata presso uno dei nostri stabilimenti. Una di loro, rappresentante di un gruppo di aziende dal Giappone, nell’osservare uno dei prodotti creati dalle nostre macchine, mi ha fatto notare come fosse evidente e percepibile in modo molto chiaro nel nostro metodo di lavoro e nelle nostre macchine, un elemento nuovo, diverso e profondo che emerge dal nostro modo di lavorare. E’ l’elemento umano, motivante, emozionale, non misurabile, che ha il potere di agire da legante e propulsore allo stesso tempo su tutto il sistema produttivo e sull’approccio che noi abbiamo adottato negli ultimi anni. Il quinto elemento è l’elemento che, una volta incorporato nel sistema, porta con sé il anche valore aggiunto rappresentato dall’orgoglio dell’imprenditore nel portare a compimento un lavoro mettendo insieme competenze diverse. Non sarebbe possibile integrare conoscenze così diversificate tra di loro se l’azienda non avesse una organizzazione di tipo bottom-up, che si genera dalle competenze dei singoli e le unifica, valorizzandole, in un sapere omogeneo e condiviso. Nell’epoca in cui viviamo, sarebbe impossibile concepire un sistema di produzione dei macchine automatiche o un qualsiasi sistema di tecnologie per l’automazione industriale partendo da una imposizione predisposta dall’alto, di tipo top-down, con la pretesa di imporre metodi e tempi prefissati per svolgere un lavoro, controllando il sistema secondo un modello arcaico e non flessibile come quello della catena di montaggio, in cui tutto si svolge in modo impersonale e rigido, con una componente umana relegata al controllo del lavoro degli altri. Questo modello è anacronistico ed improponibile oggi.

D: Qual è la sua visione di azienda moderna?

R: Oggi la priorità nelle esigenze di un’azienda è nella possibilità di disporre di squadre di persone competenti capaci di discutere e risolvere problemi complessi all’interno di un quadro multidisciplinare, integrato e flessibile. L’imprenditoria regionale si sostiene molto su queste caratteristiche, potendo anche fare affidamento su un contesto che è molto fortemente caratterizzato dalla consapevolezza di possedere delle capacità di collaborazione tra singoli molto forte e culturalmente radicata.

Queste sono le caratteristiche che vengono colte a prima vista dall’esterno quando le nostre aziende vengono visitate: molto spesso riceviamo scolaresche accompagnate dai rispettivi insegnanti, i quali alla fine delle visite guidate ci domandano con una certa sorpresa come mai si vedono molte macchine e poche persone, probabilmente pensando all’archetipo dell’azienda che utilizza operai che lavorano in modo automatico, quasi come delle macchine . Le persone non riescono a capacitarsi del fatto che il lavoro di fabbrica, inteso nel senso tradizionale e storico del termine, è profondamente cambiato: la figura dell’operaio inteso come persona che lavora faticando per eseguire un lavoro ripetitivo e severamente regimentato in una catena di montaggio è una figura obsoleta, che appartiene ad una visione ormai sorpassata del lavoro in un’azienda manifatturiera. La fatica umana è stata soppiantata dal lavoro delle macchine. L’elemento umano viene mantenuto nella sua locuzione più nobile del termine: le persone di cui abbiamo bisogno sono persone capaci di mettere a disposizione conoscenze che siano complementari e integrabili all’interno di gruppi di lavoro complessi, flessibili e variegati. L’automazione la lasciamo fare alle macchine, l’uomo porta la conoscenza emotiva, l’intuizione, la fantasia e la capacità di integrare i diversi pezzi di competenze per la risoluzione di problemi complessi all’interno di un insieme articolato come quello rappresentato da un ambiente industriale. Quando ci chiedono il motivo per cui nelle nostre fabbriche mancano operai, ci rendiamo conto del fatto che esiste una grande mancanza di consapevolezza nel sistema sociale e nel sistema formativo su cosa sia oggi la manifattura moderna.

D.: Il territorio, la regione e la sua storia hanno avuto un ruolo fondamentale nel creare il bellissimo capitolo di storia industriale che esiste in questa parte di Italia. Possiamo approfondire questa considerazione?

R: In Emilia – Romagna il comparto manifatturiero ha una forte tradizione ed una esistenza consolidata nel tempo per ragioni che sono legate al tessuto storico, sociale e culturale della nostra terra, che hanno sicuramente facilitato lo sviluppo del modello di impresa meccanica e di industrializzazione, così come li vediamo al giorno d’oggi. La forte spinta all’industrializzazione in regione ha le sue radici nel secondo dopoguerra, nel momento in cui si è venuta a creare una forte domanda nel campo dell’automazione meccanica, casualmente orientata in origine sulle macchine per il packaging e che poi si è articolata negli ambiti della logistica e dei processi. La domanda si è poi sposata con una risposta positiva in termini delle offerte di competenze che la regione ha storicamente sempre messo a disposizione, derivante da un modello scolastico consolidato, quello degli Istituti Tecnici Aldini Valeriani, che nel secondo Novecento ha dato i suoi frutti positivi. Oltre a questo, si è assistito all’arrivo di ingenti investimenti finanziari provenienti dalle campagne in un momento storico in cui si è preferito disinvestire nell’agricoltura ed investire nell’industria. Queste tre importanti componenti – domanda di meccanica, competenza in meccanica ed investimenti per la meccanica – si sono trovate quasi fatalmente insieme a partire dal 1946 ed hanno generato il distretto che nel corso degli anni ha saputo crescere diventando il distretto di eccellenza a livello nazionale come lo vediamo oggi. Certamente negli ultimi anni sono state diverse le fasi critiche che abbiamo attraversato, specialmente dopo la seconda metà degli anni settanta, momento a partire dal quale la capacità di creare impresa ha subito un involuzione dovuta a diversi fattori: prima di tutto una serie di vicende politiche hanno influenzato negativamente la storia dello sviluppo industriale a partire da quegli anni, la crisi economico finanziaria che è arrivata al culmine in questo ultimo quinquennio ed un irrigidimento della burocrazia centrale, contemporaneamente ad una sistematica distruzione del sistema scolastico di tipo tecnico e l’allontanamento definitivo del sistema finanziario e bancario e del credito dalle imprese. Il credito, infatti, non viene più concesso in base alle idee o allo sviluppo di idee, ma si è cristallizzato su schemi secondo i quali viene erogato in base a meri indicatori che non tengono conto delle analisi dei settori di mercato e dei trend di sviluppo della innovazione. Questa miscela di ingredienti è diventata letale per l’imprenditorialità: ovviamente le imprese che potevano contare su una forza fatta di quasi mezzo secolo di storia imprenditoriale hanno saputo rimanere forti e mantenere costante una crescita nonostante il periodo critico. Al contrario, è stata repressa qualsiasi forma di nuova imprenditorialità e sono venute a mancare le condizioni al contorno per mantenere o riprodurre la cultura imprenditoriale che ha generato il distretto originario, che tutt’ora sopravvive cercando di trainare un indotto che sopravvive con molta fatica.

D: In un momento di crisi economica come quello che stiamo vivendo, esistono dei segnali positivi, che possano infondere un poco di ottimismo?

R: Nonostante tutto, esistono dei segnali di speranza. Li possiamo vedere nei breakthrought che ogni tanto ci vengono offerti dalle idee innovative, li ritroviamo nel constatare, ancora una volta, che l’impresa meccanica è un’impresa assolutamente pervasiva per il fatto che si automatizzano sempre di più processi e prodotti, e che nel futuro ci sarà ancora bisogno di automazione. Ci aspettiamo, quindi, di non estinguerci e di poter godere almeno ancora di un mezzo secolo di pieno sviluppo, proprio perché il mondo diventa sempre più complesso e tendente ad un tasso di automazione destinato a crescere in tutti i processi industriali.

La speranza, quindi, c’è ed è una speranza esogena e non endogena: è dall’esterno che arriva la richiesta di esistere e migliorare. Dovremmo comunque approfittare per fare una riflessione al nostro interno e trovare delle soluzioni per la rinascita di una nuova imprenditorialità, creata dalle nuove generazioni, restituendo ai singoli un empowerment che infonda ottimismo e coraggio, ma soprattutto una nuova forma di consapevolezza: il cittadino deve poter essere “imprenditore”, se è vero che l’imprenditorialità non è una forma di oppressione del prossimo ma una forma di affermazione delle capacità individuali, una forma di affermazione della propria libertà che è anche libertà di imprendere: se siamo liberi ma non liberi di imprendere, non siamo liberi veramente.

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